Libri in uscita, interviste, reading, commenti e percorsi di lettura. Aggiornamenti quotidiani Quando parliamo di giustizia non parliamo solo della sua amministrazione quotidiana, quel complesso istituzionale che coinvolge i giudici, i tribunali, le corti, gli avvocati, i pubblici ministeri, le prigioni. Parliamo anche di un punto di riferimento ideale, dei valori di base a cui si ispira la distribuzione di diritti e doveri, opportunità e obblighi. Se si smarrisce questo riferimento ideale, anche l’amministrazione della giustizia soffre. Dopo più di trent’anni in magistratura e con all’attivo decine di inchieste giudiziarie che hanno segnato la storia italiana recente, Gherardo Colombo consegna a questo libro la sua riflessione sulla cultura della giustizia e sul senso profondo delle regole. Senza rispetto delle regole, infatti, non potremmo vivere in società. Ma senza una discussione pubblica sulle ragioni delle regole, la vita in società non saprebbe proiettarsi verso il futuro, né riuscirebbe a immaginare forme migliori di convivenza. È per questo che la discussione sulle regole coinvolge anche i modelli di società a cui le regole si ispirano. Modelli verticali, basati sulla gerarchia e la competizione. E modelli orizzontali, più rispettosi della persona e orientati al riconoscimento dell’altro. Una strada, quest’ultima, tracciata proprio sessant’anni fa dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e dalla Costituzione italiana.
Serie Bianca Feltrinelli
Gherardo Colombo ha lavorato in magistratura dal 1974 al 2007. Ha condotto o collaborato a inchieste celebri come la scoperta della Loggia P2, il delitto Ambrosoli, Mani pulite, i processi Imi-Sir, Lodo Mondadori e Sme. Dal 1989 al 1992 è stato consulente per la Commissione parlamentare di inchiesta sul terrorismo in Italia, nel 1993 consulente per la Commissione parlamentare di inchiesta sulla mafia. Dal 1989
ha lavorato come pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Milano. Nel 2005 è stato nominato consigliere presso la Corte di cassazione. A metà febbraio del 2007, a quindici anni dall’inizio di Tangentopoli, si è dimesso dalla magistratura. Con Feltrinelli ha pubblicato Il vizio della memoria (1996).
“La giustizia non può funzionare se il rapporto tra i cittadini e le regole è malato, sofferto, segnato dall’incomunicabilità.
La giustizia non può funzionare se i cittadini non comprendono il perché delle regole.”
Perché?
Ho lasciato la magistratura dopo oltre trentatré anni, dopo aver fatto prima il giudice, poi il pubblico ministero, poi di nuovo il giudice. Mi sono dimesso perché indagine dopo indagine, processo dopo processo, sentenza dopo sentenza mi sono convinto che mi sarebbe stato impossibile – da quel momento –
contribuire a rendere l’amministrazione della giustizia meno peggio di quel che è. Progressivamente mi sono convinto che, perché la giustizia cambi, sarebbe stato utile piuttosto intensificare quel che già cercavo di fare nei momenti lasciati liberi dalla professione: girare per scuole, università, parrocchie, circoli e in qualunque altro posto mi invitassero a dialogare sul tema delle regole. La giustizia non può funzionare se il rapporto tra i cittadini e le regole è malato, sofferto, segnato dall’incomunicabilità.
Non può funzionare l’amministrazione della giustizia, quel complesso che coinvolge i giudici, i tribunali, le corti, gli avvocati, i pubblici ministeri, le prigioni, le persone sul cui destino tutto ciò incide il più delle volte pesantemente. E non può funzionare la giustizia intesa come punto di riferimento, come base dei rapporti tra gli abitanti del mondo, dispensatrice, prima ancora che verificatrice, di quel che spetta e quel che è tabù, delle possibilità e dei carichi, degli ordini e dei divieti, delle limitazioni e della libertà.
La giustizia non può funzionare se i cittadini non comprendono il perché delle regole. Se non lo comprendono tendono a eludere le norme, quando le vedono faticose, e a violarle, quando non rispondono alla loro volontà.
Perché la giustizia funzioni è necessario che cambi questo rapporto.
Mi sono dimesso per portare il mio granellino di sabbia sulla strada del cambiamento. Queste pagine sono una parte di quel granellino.